A un mese dalla conclusione della Bermuda Bowl, qualcosa mi ha spinto a tornare a scrivere: innanzitutto la ripresa delle lezioni bridge con i nuovi allievi che arrivano ed i “vecchi” che si rimettono in gioco, ma anche la lettura di un articolo di Milena Bonazzi che mi ha fatto pensare.
Il punto di partenza è la preoccupazione che hanno tutti gli insegnanti di Bridge: come fare ad aggregare sempre più appassionati al nostro sport della mente?
Si potrebbe rispondere intanto che occorre lavorare sulle modalità didattiche e comunicative prendendo atto di quanto oggi sia repentino l’evolversi di abitudini e mode, ma ciò che me preme maggiormente è come fare per rimuovere l’idea di un Bridge declassato da impegno agonistico ad intrigante passatempo.
Milena ha iniziato a scrivere di Bridge poco più di un anno fa, ma lo ha fatto non come esperta di licita e gioco (era appena al primo anno di allieva), ma come curiosa investigatrice di cosa passa per la mente a chi prende le 13 carte in mano. a qualsiasi livello sia. Nel suo ultimo articolo scrive: “[Ai Campionati Mondiali] la squadra italiana ha vinto la medaglia di bronzo. Per ottenere questo traguardo, ovviamente è passata per una serie di vittorie e da una sconfitta alle semifinali; e proprio quest’ultima mi ha suscitato una quantità di considerazioni sul “perdere” o essere “sconfitti””.
A questo punto la nostra amica sottolinea la sostanziale differenza che esiste fra i due termini: “La mia repulsione per la parola “perdere” mi accompagna da sempre. Io preferisco di gran lunga essere sconfitta, che nella mia testa implica una lotta e un confronto senza esclusione di colpi, acerrimo e talvolta furioso, in cui nessuna delle due parti ha lasciato nulla di intentato. […] Nessuno mi toglierà dalla testa che quando perdi qualcosa sei stato distratto. Non ci tenevi abbastanza. […] Quando perdi non ti resta che piangere, se vieni sconfitto [invece] arde ancora la voglia di cimentarti all’occasione successiva per dimostrare il tuo valore. Nel caso del bridge, l’Italia è stata sconfitta dalla Norvegia in semifinale. Hanno dato il massimo e l’infelice risultato, non ha spento la brace della competizione, tant’è che nella finale per il 3°-4° posto hanno dimostrato la grinta e la volontà di rimontare in sella come fanti e si sono conquistati una meritatissima medaglia.”
Vorrei ripartire da qui. Per rilanciare con nuova lena il movimento bridgistico, dopo lo tsunami della pandemia, in questo dolce autunno nostalgico dell’estate, non serve piangersi addosso e neanche andare a tirare freccette avvelenate nei circoli dove si gioca la pinnacola. Se pensiamo di conquistare nuovi adepti o riportare i vecchi, ben vengano – ma non bastano – aperitivi frizzanti e colorati: occorre riaccendere la brace della competizione che, una volta tanto, non è solo cercare di vincere un torneo, ma soprattutto imparare la legge dello sport.
Si tratta di tornare ad insegnare che nel Bridge non basta imparare che si apre con dodici punti, bla bla bla, ma va fatto un lavoro di testa e di cuore. Far capire che non facciamo giochini con le carte, ma ci addestriamo ad un’arte che ha una sua tradizione sportiva consolidata. Non un trastullo, ma un lavoro educativo ed umano, anche se talvolta duro e impopolare.
Insegniamo ai nostri allievi l’agonismo. Così dal tavolo potranno anche alzarsi sconfitti, ma resteranno sempre vincenti.
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